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Melissa Aldana © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz

Bergamo, Italia


Bergamo Jazz, 23-26 marzo 2017


La 39esima edizione di Bergamo Jazz –la seconda sotto la direzione artistica di Dave Douglas– ha proposto un programma denso e di qualità elevata, con alcune novità: un congruo spazio riservato a giovani gruppi italiani emergenti nella sezione Scintille di Jazz curata dal sassofonista bergamasco Tino Tracanna; una capillare distribuzione dei numerosi eventi in molti luoghi (alcuni mai prima aperti alla musica) dell’affascinante città lombarda. Oltre al Teatro Donizetti, destinato ai concerti serali, al Teatro Sociale e all’Auditorium della Libertà, il pubblico ha potuto godere di cornici inedite quali la Biblioteca «Angelo Mai», l’Accademia Carrara e l’ex Monastero del Carmine. All’interno del nutrito programma –tra conferme, sorprese e alcune delusioni– si possono individuare alcune tracce, che contribuiscono anche a far riflettere sulla funzione culturale e (perché no?) sociale di un festival jazz oggi.







La difficile arte del trio


La musica dell’OriOn Trio di Rudy Royston (dm) si sviluppa su pedali modali e tempi liberi, ma anche su groove e pattern ritmici elementari. Specie in area modale, e ancor più quando si sconfina nell’informale, si colgono echi dell’incommensurabile lezione del Paul Motian compositore. In questo contesto, l’attenzione alle dinamiche è massima e offre a Royston il pretesto per giocare sulle timbriche e sui colori. Altrove, l’approccio ritmico è invece più piatto e convenzionale, rivelando i limiti di una leadership ancora immatura e di un progetto incompiuto. La propulsione di Yasushi Nakamura (b) è possente e provvista di suono e cavata vibranti. Spesso al di sopra delle righe e ai margini dell’intonazione, Jon Irabagon elabora crescendo animati da un fraseggio corrosivo memore di David Murray e David Ware al tenore, di Sam Rivers al soprano.


Per quanto pienamente consapevole della storia del tenore, la 28enne cilena Melissa Aldana dimostra una crescente personalità e la volontà di definire un proprio linguaggio soprattutto attraverso composizioni originali da cui emerge una matrice latina priva di luoghi comuni. Il suo stile è contraddistinto da un suono rotondo, un fraseggio nitido e mai debordante, in cui si evidenziano tracce di Warne Marsh, Sonny Rollins e del suo maestro George Garzone. Tale atteggiamento si riflette anche nel trattamento degli standards: una «Spring Can Really Hang You up the Most» ragionata e preceduta da un’introduzione in solitudine dove vengono elaborate variazioni intorno al frammento iniziale del tema di «St. Thomas». Versatile, asciutta ed empatica, la ritmica –il connazionale Pablo Menares (b) e Craig Weinrib (dm)– integra, sottolinea con discrezione e rilancia ogni sollecitazione.


Evan Parker © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz



Il solo come sfida
 

Nella poetica di Evan Parker –qui impegnato esclusivamente al soprano– la respirazione circolare è il mezzo per costruire spirali concentriche alimentate da una logica stringente. Le cellule si moltiplicano, quasi a creare una sorta di loop ipnotico e indurre uno stato di trance, retaggio di antiche culture, mediante armonici, microtoni, sovracuti e registri estremi. Da una massa sonora apparentemente informe emergono continuamente schemi geometrici e frasi (ri)generate. Seppur sul terreno dell’improvvisazione aleatoria, si individuano dunque una forma e un’unità strutturale. L’iterazione sfiora a tratti anche l’universo di Terry Riley, non a caso anche sopranista. Occasionalmente si aprono delle brevi fasi statiche, con cambi di registro e timbro, dove affiorano anche frammenti melodici. È messa volutamente in secondo piano l’importanza che Monk e Lacy (omaggiato attraverso «The Dumps») annettevano alle pause e ai silenzi.


Il violoncellista Ernst Reijseger è fautore di una concezione totale dell’improvvisazione, svincolata da matrici predefinite secondo i canoni storici della scuola olandese. Pertanto, costruisce un flusso sonoro che può prendere vita da arcate ipnotiche per poi accendersi con improvvise svisate che virano verso il blues. Oppure, crea delle progressioni dal gusto bachiano accompagnandosi con vocalizzi e usa il pizzicato per elaborare fraseggi orientati alla formazione di un groove, riportando alla memoria grandi contrabbassisti dediti anche al violoncello come Oscar Pettiford, Ron Carter e Dave Holland, o specialisti dello strumento quali Abdul Wadud e Hank Roberts. Sfrutta poi tutto il corpo dello strumento, alla stregua di una percussione o di una chitarra. Emergono anche africanismi derivanti dalla collaborazione con il senegalese Mola Sylla. Il rapporto con lo spazio assume, attraverso il movimento, un ruolo preponderante con quel pizzico di teatralità e clownerie proprie della scena olandese.




Cosa si intende oggi per «tradizione»?


Nella riproposizione di This Machine Kills Fascists, disco dedicato a Woody Guthrie, Francesco Bearzatti compie con il quartetto Tinissima una ricognizione all’interno delle varie fonti del jazz afroamericano, evidenziandone le radici folk e blues. Il retaggio di New Orleans trapela nella scansione ritmica e in certi impasti tra clarinetto e tromba, mentre un’impronta r&b scaturisce dal fraseggio sanguigno del tenore. Le digressioni ritmiche offrono il destro per assolo incisivi. Sotto questo aspetto, risulta impressionante la nitida concatenazione logica con cui Giovanni Falzone (tp) sviluppa le sue frasi. Danilo Gallo (elb) fornisce il collante con il suo stile asciutto ma versatile, ricorrendo a un’ampia gamma timbrica attraverso pedali ed effetti. Una versatilità esemplarmente completata dalla varietà di soluzioni di Zeno De Rossi, capace di trarre un intero spettro di colori da ogni singolo elemento della batteria.


Francesco Bearzatti Tinissima Quartet © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz



In un inedito duo con Kenny Wollesen Bill Frisell ha proposto con fresca inventiva uno stimolante panorama di quello che si potrebbe definire Americana, vale a dire un repertorio legato alla tradizione popolare intesa nell’accezione più ampia del termine. Risalta in particolare l’uso variegato di timbri durante la stessa esecuzione tramite le risorse della pedaliera. Dolci melodie (come l’originale «Steady Girl»), reminiscenze country e accenti rock vengono accostati –in una sorta di immaginaria colonna sonora– ad armonizzazioni e un’articolazione del fraseggio assolutamente jazzistiche. Quando Frisell sporca e inasprisce i timbri, sembra rinverdire i fasti di Before We Were Born. Il versante più jazzistico richiama la collaborazione con Motian. Lo si avverte chiaramente nel modo in cui il tema di «Misterioso» viene distillato e poi disarticolato, nella meticolosa e riflessiva successione armonica di «Lush Life», nelle guizzanti linee di «Oleo». Queste caratteristiche arricchiscono le versioni di «A Hard Rain’s A-Gonna Fall» di Dylan, affrontata con piglio corrosivo, e «What The World Needs Now Is Love» di Bacharach, costellata di delicate figure melodiche. In ogni passaggio Wollesen segue il disegno del collega con grande sensibilità dinamica, felici intuizioni timbriche e approccio a tratti contrappuntistico, utilizzando anche in uno stesso brano bacchette, mazze felpate e diversi tipi di spazzole.


Bill Frisell, Kenny Wollesen © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz


Simply Ella di Regina Carter è un non-progetto, tipico esempio di come non si dovrebbero applicare criteri pedissequamente filologici alla tradizione. Pescando dal composito repertorio di Fitzgerald, Carter ha eseguito versioni prive di contenuto, intuizioni e anima, senza aggiungervi niente di proprio: in pratica, ha confezionato delle cover. In tal modo, ha vanificato il lavoro di arrangiamento di Marvin Sewell, riducendo al minimo sindacale il contributo di Reggie Washington (b) e Alvester Garnett (dm). Unica eccezione, Ellington: «Come Sunday» enunciata attraverso un fine interplay e «Imagine My Frustration» provvista di un minimo di blues feeling


L’idea di introdurre l’organo (in realtà, una tastiera che ne riproduce le sonorità) affidandolo a Cooper Moore permette a William Parker di riallacciarsi da par suo non solo all’opera di grandi solisti come Jimmy Smith, Jack McDuff, Big John Patton, Larry Young, ma anche alla tradizione del soul jazz e del r&b senza mai utilizzare alcun elemento derivativo o filologico. Piuttosto, unendo le sue linee potenti e avvolgenti al drumming poliritmico e denso di africanismi del proverbiale partner Hamid Drake, Parker imbastisce un impianto solidissimo e al tempo stesso scorrevole per gli inserimenti di un organo sempre fuori dagli schemi e per le progressioni brucianti del tenore di James Brandon Lewis, che guarda più a Rollins, Ayler, Shepp e Ware che a Coltrane, ma sembra aver assimilato anche la lezione di Hawkins, Gonsalves e dei Texas Tenors. Ovviamente, pur dotata di una netta matrice afroamericana, questa musica è lontana anni luce dal groove canonico. Piuttosto, si trasforma in un flusso di magma ribollente.


William Parker Quartet  © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz



 

Il suono ECM


Alla prestigiosa etichetta tedesca ECM si attribuisce una poetica orientata a una ricerca astratta della purezza sonora. Amanti e detrattori di tale orientamento avranno ricavato validi motivi di discussione da due eventi proposti a Bergamo.


Spazi e silenzi. Elementi necessari in musica, esplorati a fondo da compositori contemporanei come Morton Feldman. A questi criteri si ispira il norvegese Christian Wallumrød per realizzare con il suo ensemble un tessuto basato sulla ripetizione sistematica di nuclei armonici essenziali e micro-cellule melodiche. Ne risultano sottili impasti timbrici tra piano o armonium del leader, vibrafono o batteria (Per Oddvar Johansen), cello (Katrine Schiøtt), tromba (Eivind Lønning) e tenore (Espen Reinertsen). La musica resta in bilico tra spazialità e profondità, ma denuncia anche contenuti molto esili. Più apprezzabili certi momenti corali, dove almeno il disegno melodico riesce a fluire. In tal modo, si azzera totalmente l’improvvisazione e si sconfina in territorio accademico.


Con il consolidato quartetto protagonista di Surrounded by Sea Andy Sheppard sembra perseguire una ricerca dalla duplice natura: da una parte, melodie limpide, di semplice leggibilità; dall’altra, dinamiche soffuse, impalpabili, ai limiti del silenzio. Al di là delle migliori intenzioni, ne scaturisce una musica fin troppo statica e priva di fuoco creativo, che limita le notevoli capacità dei componenti, a cominciare dall’inventiva del leader. Le intuizioni melodiche e l’inclinazione dialettica di Michel Benita sono ridotte all’osso, mentre Sebastian Rochford (dm) appare confinato ad un ruolo di modesto (e a tratti incerto) comprimario. Eivind Aarset (g) svolge con efficace parsimonia la sua funzione di sonorizzatore attraverso la vasta gamma di effetti e il supporto dell’elettronica, ma non è messo nella condizione di sfruttare appieno tali risorse per creare un contrasto più consistente.




Musica per grandi organici


Esempio peculiare della fertile scena scandinava, Shamania è una formazione femminile di undici elementi (più una danzatrice) assemblata da Marilyn Mazur. Nonostante il ruolo di direzione musicale, la percussionista danese non accentra su di sé le esecuzioni. Semmai, da certi suoi stimoli (come figurazioni e sequenze coloristiche) nascono il pretesto e lo spunto per gioiosi collettivi, la circolazione «democratica» di cellule melodiche, scambi tra sezioni o al loro interno. Particolarmente vivace quella dei fiati (alto-tenore/soprano-tromba-trombone), arricchita da due vocalists –Josefine Cronholm e Sissel Vera Pettersen– in possesso di una vasta gamma espressiva e capaci di spericolate acrobazie. Nota anche per le sue esperienza nell’improvvisazione radicale, Lotte Anker (ts, ss) si distingue per il fraseggio spigoloso e per le aspre timbriche. La coralità polifonica delle esecuzioni trae libera ispirazione dalle musiche etniche (in particolare dall’Africa), ma linguaggio e spirito sono assolutamente jazzistici.


Marilyn Mazur Shamania © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz


Sulla scorta di una collaborazione quasi ventennale, Enrico Pieranunzi ha presentato insieme alla Brussels Jazz Orchestra, formazione belga di sedici elementi, una serie di sue composizioni finemente arrangiate dal trombettista Bert Joris, tra le quali spiccano «Persona», «Fellini’s Waltz», «It Speaks for Itself» e «With My Heart in a Song». La scrittura armonicamente densa e melodicamente lineare del pianista romano viene qui valorizzata da scambi e stratificazioni tra le sezioni ance e ottoni, da sovrapposizioni ritmiche sul ricorrente uso del 3/4, nonché da interessanti soluzioni timbriche, come la frequente combinazione tra clarinetti e flauto. La coralità e la precisione degli arrangiamenti limitano allo stretto indispensabile gli assolo, che raggiungono la maggior efficacia espressiva nelle sequenze tra alto (Frank Vaganée), tromba (Pierre Drevet) e trombone (Marc Godfroid).



Enrico Pieranunzi, Brussells Jazz Orchestra © foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamoi Jazz



Largo ai giovani!


Per la vitalità e il futuro di un festival in Italia è fondamentale documentare la realtà locale, con particolare attenzione ai talenti emergenti. Nell’ambito della sezione Scintille di Jazz si è segnalato il gruppo della 27enne vocalist Camilla Battaglia, che ha riproposto buona parte del recente Tomorrow-2 More Rows of Tomorrows. Si tratta di un coraggioso progetto basato su un repertorio totalmente originale, in cui Camilla ricerca un non facile connubio (o forse meglio: un’unità) tra testi cerebrali, melodie dall’arduo disegno e intricate armonie. Penalizzata nella circostanza da un cattivo missaggio, la voce partecipa spesso a vibranti collettivi. Camilla è figlia d’arte: la madre è la vocalist Tiziana Ghiglioni, il padre il pianista Stefano Battaglia. Non si può che apprezzare il suo sforzo di cercare una propria identità, lontana dallo stereotipo della cantante jazz o da ingombranti modelli. Sarebbe magari consigliabile perseguire una maggior asciuttezza e musicalità nelle scelte fonetiche e lessicali. Pregevole anche l’apporto del gruppo: oltre all’esperto Roberto Cecchetto (g), Nicolò Ricci (ts), Federico Pierantoni (tb), Andrea Lombardini (elb) e Bernardo Guerra (dm).




In conclusione, vale la pena di ricordare che nel ridotto del Teatro Donizetti era stata allestita la mostra fotografica Il Jazz di Riccardo Schwamenthal, storico appassionato e fotografo bergamasco scomparso lo scorso ottobre: una documentazione preziosissima, rigorosamente in bianco e nero, sui protagonisti di un’epoca indimenticabile. Proprio il Donizetti non sarà disponibile, causa restauri urgenti, per la 40esima edizione del 2018, per la quale è lecito aspettarsi un’ulteriore simbiosi con altri luoghi suggestivi della città.


Enzo Boddi
Foto Gianfranco Rota by courtesy of Bergamo Jazz

© Jazz Hot n° 679, printemps 2017