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Fano, Italia


Fano Jazz by the Sea, 28-30 luglio 2016


Dopo un paio d’anni di ridimensionamento dovuto a pesanti tagli ai finanziamenti, Fano Jazz by the Sea ha rilanciato la propria attività con una 24e edizione ricca di spunti di riflessione e di proposte disseminate in spazi diversi secondo un disegno progettuale.
I concerti di maggior richiamo sono stati ospitati al Teatro della Fortuna e hanno visto protagonisti – con l’immancabile successo di pubblico - il trio Scofield-Mehldau-Guiliana, Yellowjackets, il Volcan Trio (i cubani Gonzalo Rubalcaba, Armando Gola e Horacio «El Negro» Hernández) e il Kenny Garrett Quintet.


Phronesis © Maurizio Tagliatesta by courtesy of Fano Jazz by the Sea


Più di nicchia, ma certamente non meno interessanti, gli eventi programmati presso la Corte Sant’Arcangelo. Guidata dal bassista danese Jasper Høiby, Phronesis è una delle formazioni più interessanti dell’attuale scena europea. La poetica del trio si basa su una costante interazione, fatta di continui scambi di stimoli e segnali. Le composizioni poggiano su armonie aperte, impianti modali, strutture poliritmiche sviluppate con ricorso a metri dispari, passaggi su tempo libero e temi densamente articolati. Høiby governa le esecuzioni con un fraseggio fluido e dialettico, un modo di sviluppare le linee che ricorda alla lontana Gary Peacock e un suono sontuoso che in qualche modo richiama il suo compianto connazionale Niels-Henning Ørsted Pedersen. Lo coadiuva, e lo contrasta al tempo stesso, il norvegese Anton Eger con un drumming febbrile, frastagliato, contraddistinto da continue scomposizioni e fratture, arricchito da una particolare attenzione agli aspetti timbrici. L’inglese Ivo Neame (p) integra il dialogo producendo un confronto proficuo tra i piani verticale e orizzontale, e scavando a fondo la sostanza armonica con interventi incisivi.



Lars Danielsson Group © Maurizio Tagliatesta by courtesy of Fano Jazz by the Sea


Sulla scorta dei due recenti volumi di Liberetto, il contrabbassista Lars Danielsson dimostra di prediligere armonie capienti e accattivanti, e temi finemente cesellati, spesso sulla base di melodie orecchiabili. In questa impostazione si individuano tanto il retroterra classico, quanto le radici del folk scandinavo ed altre forme della tradizione popolare europea, come evidenziato da Passacaglia in 4/4, elaborazione della convenzionale struttura in 3/4. Ne risulta una proposta musicale godibile, ingegnosamente costruita, ma a tratti narcisistica e fin troppo meticolosa nei dettagli, che non esclude l’improvvisazione ma rinuncia ad affrontare qualsiasi minimo rischio. In questo quadro spicca comunque la bravura dei musicisti. Per primo, il pizzicato nitido del leader, alla stregua di un violoncello, particolarmente evidente nelle intro e negli inserti solistici. Quindi, le variegate dinamiche di Magnus Öström (in passato batterista di E.S.T.) ottenute tramite spazzole e vari tipi di bacchette, in equilibrio tra swing, ritmi binari di matrice rock e il suo proverbiale, frenetico gioco tra charleston e rullante. Poi, la sapienza ritmico-armonica di John Parricelli (g) e la sua discrezione nella distribuzione dei timbri, «trasgredita» soltanto in un lungo assolo dal fraseggio rock e dalle tinte blues. Infine, il tocco ritmico di Grégory Privat (p), sostituto di Tigran Hamasyan, protagonista di alcune progressioni in assolo basate su sequenze telegrafiche e vertiginose.



Roberto Gatto Special Quartet © Maurizio Tagliatesta by courtesy of Fano Jazz by the Sea


Incaricato dalla direzione artistica di Fano Jazz di presentare un nuovo progetto, Roberto Gatto ha assemblato una formazione di musicisti con cui collabora in contesti differenti: il fido Dario Deidda (b), Sam Yahel (p) e Javier Vercher (ts). Purtroppo, però, ha disatteso le aspettative proponendo un repertorio composto da pochissimi originali e molti standards eseguiti con il consueto criterio della successione esposizione del tema-sequenza di assoli-ripresa del tema. Peccato, perché l’inizio informale su tempo libero e slittamenti atonali aveva lasciato presagire sviluppi molto interessanti. Ha fatto eccezione una versione in piano trio di «Moonlight in Vermont», giocata in punta di piedi con sapienti pause e sottili dinamiche. Del gruppo si è ovviamente apprezzata la perizia dei singoli: lo swing fluido e rilassato, la gamma dinamica del batterista; l’inventiva melodica di Deidda, capace di far suonare lo strumento elettrico come un contrabbasso; il gioco di sottrazione e le frasi essenziali di Yahel, in altri contesti valente specialista di organo Hammond; il timbro possente, affine a Joe Henderson, di Vercher.



Sulla base di una felice intuizione del direttore artistico Adriano Pedini, la Pinacoteca di San Domenico ha accolto una rassegna di concerti pomeridiani dal titolo Gli echi della migrazione, quanto mai in tema con gli avvenimenti degli ultimi anni. Eventi sonori in solo, del tutto appropriati alla dimensione acustica della chiesa sconsacrata, che hanno visto succedersi il trombettista Luca Aquino, il percussionista Michele Rabbia e i sassofonisti Dimitri Grechi Espinoza e Gavino Murgia.

Oreb-Preghiera Sonora
di Grechi Espinoza è un vero progetto, sul suono e sulle strutture. Lo si potrebbe definire «architetture sonore», dato che sfrutta appunto l’interazione con gli spazi e i volumi architettonici. L’operazione era nata da sperimentazioni compiute nel duomo romanico di Barga e si è poi concretizzata in una registrazione effettuata nel battistero di Pisa e documentata su Angel’s Blows. Grechi Espinoza costruisce un monologo-dialogo interiore grazie al riverbero naturale. La voce del tenore ben si presta allo scopo, grazie alla sua peculiare gamma timbrica e dinamica. Nei movimenti che compongono la suite, Grechi Espinoza sviluppa delle cellule melodiche con certosina meticolosità, procedendo per accumulo e progressiva stratificazione, e a tratti crea dei passaggi contrappuntistici. Più che nel fraseggio, l’elemento jazzistico dell’operazione va individuato nella pronuncia e nel procedimento esecutivo che non rinuncia all’improvvisazione, o nella citazione occasionale, come avviene nel caso delle strutture elaborate sulla base di un minuscolo frammento di «’Round Midnight». L’ascoltatore assiste a una lunga, accorata preghiera che si estrinseca anche in un blues ridotto alla sua essenza ed elevato al rango di spiritual.



Profondamente legato alle radici della natia Sardegna, Murgia interpreta in modo esemplare il compito di un moderno musicista europeo capace di innestare il linguaggio jazzistico sul substrato della propria cultura ricollegandovisi anche attraverso strumenti tradizionali, ma sempre con il filtro dell’improvvisazione. Murgia è anche membro di un quartetto vocale sardo specializzato nel tradizionale canto a tenore. Perciò, sfrutta il suo registro di basso e certi tratti timbrici gutturali sia per eseguire un lungo assolo ricco di dinamiche e di moltiplicazioni di cellule ritmiche, sia per predisporre una base polifonica campionata su cui improvvisare con il soprano. Murgia padroneggia anche strumenti tradizionali sardi come il sulittu (piccolo flauto, o zufolo, di canna) e le antichissime launeddas, ance suonate con la tecnica della respirazione circolare, formate da una doppia canna con cui si crea un bordone e una canna singola con cui si eseguono le melodie. Il legame con la propria terra si avverte anche nell’approccio più squisitamente jazzistico: nel fraseggio sinuoso del soprano, in piena dialettica con il riverbero della chiesa o su una base preregistrata; nella voce possente del tenore che si sovrappone a un fondale elettronico. Una poetica che colloca Murgia sulla scia delle esperienze compiute da John Surman e Jan Garbarek, ma che rivela al tempo stesso un’identità forte e definita.



Nello stupendo scenario notturno della chiesa diroccata di San Francesco la rassegna YoungStage ha riproposto un tema caro a Fano Jazz, vale a dire l’attenzione ai giovani musicisti italiani. Tra i concerti si è distinto quello del trio del contrabbassista Matteo Bortone, piuttosto attivo anche sulla scena francese. Bortone, Enrico Zanisi (p) e Stefano Tamborrino (dr) non sono solo talenti prepotentemente emergenti, ma dimostrano di aver superato la dipendenza dai modelli afroamericani, definendo così un’identità e una poetica originali. Le composizioni di Bortone evidenziano una compiuta concezione architettonica anche quando prendono spunto da cellule semplici, minimali e da tempi liberi. Al loro interno si coglie anche un asciutto senso melodico, svincolato dalla stretta dipendenza dal tema. Non di rado, infatti, si assiste a un rovesciamento del procedimento performativo. Spiccano l’empatia e la sintonia con cui Bortone e i colleghi contribuiscono al processo improvvisativo. Zanisi apporta interventi concisi e pregnanti, con tocco nitido, quasi classicheggiante e con un ricco linguaggio armonico. Bortone privilegia linee asciutte, pedali solidi e frasi essenziali e melodiche al tempo stesso. Tamborrino completa il quadro con un’amplissima gamma dinamica, una decisa propensione per i colori e una rara capacità di ascolto. Una dimostrazione efficace, e non comune, di come si dovrebbe interpretare il piano trio oggi. E anche la conferma (l’ennesima) che il futuro dei festival jazz in Italia non può prescindere da un’adeguata promozione del ricco serbatoio di nuove idee che la scena nazionale propone.

Enzo Boddi
Foto © Maurizio Tagliatesta by courtesy of Fano Jazz by the Sea


© Jazz Hot n° 677, autunno 2016