Pescara, Italia
Pescara Jazz, 8-10 luglio 2016
Nonostante i problemi che in fase di allestimento sembravano averne quasi compromesso la realizzazione, la 44esima edizione di Pescara Jazz ha offerto un programma variegato e di buon livello, come sempre seguito da un pubblico numeroso e affezionato.
Con l’E-Collective Terence Blanchard interpreta la tendenza, propria di vari esponenti del jazz afroamericano, a rappresentare i vari segmenti della black music attuale e tradurli in stimoli per le proprie creazioni. La concezione di Blanchard è alimentata anche da un forte afflato socio-politico. Ampie fasce della popolazione giovanile afroamericana hanno orientato le proprie preferenze su hip hop, rap, drum’n’bass, jungle, così come i loro genitori o nonni prediligevano R&B, soul e funk. Blanchard cerca di ridare pari dignità a tutti questi generi per dimostrare il loro pieno diritto di appartenenza all’universo afroamericano. Pur con alti e bassi, conduce quindi un’operazione intellettualmente onesta, integrando l’elettronica nella tavolozza sonora. Il laptop è utilizzato per inserire stralci di recitativo con precise connotazioni di protesta sociale e riferimenti alle recenti tensioni («I Can’t Breathe»). Il percorso tocca vari territori: allusioni al Davis elettrico, ritmiche funk e jungle, spunti melodici alla Michael Jackson, riff rock. L’unico grave limite sta nel costante filtraggio del suono della tromba che rende il fraseggio nevrotico, quasi chitarristico, ma anche terribilmente uniforme.
Il grave infortunio occorso a Mike Stern a tre giorni dalla partenza per il tour europeo ha costretto Bill Evans a sostituirlo con un navigato turnista come Dean Brown, rivoluzionando così il repertorio. Punto fermo del gruppo, la granitica coppia ritmica Dennis Chambers (dm) - Darryl Jones (b). Quest’ultimo da giovanissimo era stato membro, come Evans, del gruppo di Miles Davis. Da lungo tempo Evans persegue con i propri gruppi la messa a punto di una miscela tra jazz, R&B, funk e rock. Un’operazione certo non priva di risvolti commerciali, a suo tempo condotta da David Sanborn e dai Brecker Brothers, definibile come musica popolare americana tout court. Nel fraseggio e nell’inflessione del tenore si colgono un suono di lontana derivazione coltraniana, affinità con il compianto Bob Berg e netti richiami al R&B. La matrice di Shorter emerge al soprano in un’efficace versione di «Jean Pierre» di Davis. Brown si è inserito in questo contesto con una varietà di soluzioni timbriche e una sintassi più vicine al rock, e con un fraseggio spezzato, corrosivo e venato di tinte hendrixiane.
A 74 anni Jack DeJohnette non si riposa certo sugli allori. Il trio allestito con Ravi Coltrane e Matthew Garrison (documentato da In Movement) testimonia di un costante impulso verso l’esplorazione di nuove concezioni e modalità esecutive. Spicca la fitta, spesso paritaria, interazione alimentata e sostenuta dal batterista, che raggiunge vertici di grande espressività anche nei passaggi informali su tempo libero. La gamma timbrica è arricchita dall’ampio ventaglio di soluzioni escogitate da Garrison sia col basso elettrico che con inserti elettronici governati attraverso la pedaliera e il laptop. Con corposi pedali, in ambito prevalentemente modale, e secche linee melodiche che a tratti evocano la figura del padre integra il gioco poliritmico e le continue scomposizioni di DeJohnette. Coltrane ha ormai acquisito una compiuta identità, che al tenore lo allontana decisamente da scomodi paragoni con il padre, mentre al soprano e soprattutto al sopranino costruisce percorsi guizzanti, asimmetrici e a tratti abrasivi, violentemente contrastanti con il flusso ritmico. Quando il trio affronta «Alabama», affiora inevitabilmente lo spirito di Coltrane e Garrison padri, ma il crescendo di tensione traccia una netta e opportuna distinzione rispetto all’originale.
Chi si aspettava un caleidoscopio di scoppiettante latin jazz dal sestetto di Arturo Sandoval sarà rimasto parzialmente deluso. Soprattutto nella prima parte del concerto il trombettista cubano si è adagiato su un entertainment di maniera, dedicandosi ai timbales e al canto. Un processo di «americanizzazione», inteso come modo di concepire la performance, piuttosto pacchiano e un po’ kitsch, con innesti vocali che spaziavano da un improbabile crooning a uno scat mutuato dal maestro Gillespie. Ovviamente, quando imbraccia la tromba, Sandoval è ancora un formidabile virtuoso capace di salire sugli acuti e i sovracuti con invidiabile nitidezza di pronuncia. Quando si identifica con le proprie radici attingendo al patrimonio afrocubano, sfrutta le potenzialità del gruppo con quelle stratificazioni poliritmiche che, partendo dalla classica sovrapposizione di clave e montuno, hanno generato rumba, mambo e salsa. Applicando questa impostazione a «A Night in Tunisia» e soprattutto a «Seven Steps to Heaven», il gruppo ottiene risultati ancor più efficaci.
Il consolidato trio Carla Bley-Steve Swallow-Andy Sheppard ha indubbiamente raccolto l’eredità, e sviluppato le intuizioni, delle formazioni nate sulla scia delle innovazioni di Lennie Tristano: in primis il trio di Jimmy Giuffre, di cui il bassista è stato a lungo membro. Ancor più che nel recente passato, il trio applica alle composizioni della pianista una cura maniacale del suono, delle timbriche e delle dinamiche, tradotta in fraseggi cesellati con raffinata meticolosità. L’attenzione alla pagina scritta non inficia il processo creativo, né pregiudica gli spazi per l’improvvisazione. Ogni tanto emerge un moderno gusto contrappuntistico, fonte di efficaci intrecci tra le voci strumentali. L’apporto del piano è scarno, non di rado basato sull’uso dello staccato. Come di consueto, Swallow svolge una duplice funzione ritmico-melodica con le sue dense linee dall’impronta quasi chitarristica. Soprattutto al tenore, Sheppard sviluppa le sue frasi in punta di piedi, con un sorta di soffio vitale che sembra avere lontane radici in Lester Young e un riferimento palese in Warne Marsh. Nell’unico brano non originale, «Misterioso», l’arrangiamento di Carla Bley prevede un’intro e una coda quasi classicheggianti e contrapposte alle cellule del tema, mentre gli sviluppi riportano con prepotenza alla luce l’essenza blues della scrittura di Monk.
Sulla scia di Upward Spiral, Branford Marsalis ha inserito stabilmente nel proprio quartetto Kurt Elling, con lo scopo di disporre – più che di un cantante – di un alter ego con cui interagire. Il vocalist di Chicago possiede un innato senso del palcoscenico, un’assoluta padronanza delle risorse e dei materiali presi in esame. Affronta con swing rilassato «There’s a Boat Dat’s Leavin’ Soon for New York» (da Porgy and Bess), modula con sapienti pause ed inflessioni i versi della ballad «Blue Gardenia» di Nat King Cole, tratta con piglio ritmico incisivo «Só tinha de ser com você» di Jobim. Inoltre, è dotato di una dizione nitida, di una fluida articolazione dello scat e di una spiccata capacità di saltare da un registro all’altro. Caratteristiche ancor più evidenti negli originali, dove emergono l’abilità narrativa e un compiuto processo di identificazione con il testo. Il rodato quartetto gode della massiccia propulsione di Eric Revis (b) e Justin Faulkner (dm), e dell’ampio sostegno armonico di Joey Calderazzo (p), anche protagonista di alcune sortite in solo che esplorano le implicazioni dei pezzi. Sia al tenore che al soprano Marsalis rinuncia al virtuosismo, a favore di calibrate costruzioni. L’intenso duetto con Elling, sulla base di chiamata e risposta, in «I’m a Fool to Want You» esprime la profonda consapevolezza della tradizione e produce un vertice espressivo dal grande impatto emotivo.
Non si può che augurare lunga vita a Pescara Jazz, a dispetto delle difficoltà affrontate negli ultimi anni. Il 50e anniversario non è lontano!
Enzo Boddi Foto © Alessandra Freguja
© Jazz Hot n° 677, autunno 2016
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