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Cormòns
, Italia

Jazz & Wine, 22-25 ottobre 2015


La 18e edizione del festival friulano ha fatto registrare un’ulteriore crescita in termini di qualità e varietà dei contenuti, nonché di partecipazione del pubblico, come sempre integrato dalla presenza di spettatori austriaci e sloveni. Inoltre, la manifestazione ha confermato di essersi radicata profondamente nel territorio, grazie al connubio tra musica, vini e prodotti locali di cui si è potuto godere nelle varie aziende del Collio, situate sia sul versante friulano che su quello sloveno, dove si sono svolti quasi tutti i concerti mattutini e pomeridiani, mentre quelli serali erano come sempre ospitati dal Teatro Comunale di Cormòns.



Sheila Jordan e Cameron Brown © Luca D'Agostino/Phocus Agency by courtesy of Jazz & Wine




Effettivamente, l’ascolto di alcuni storici rappresentanti del linguaggio jazzistico è per certi versi paragonabile alla degustazione di un grande vino d’annata. La similitudine si applica perfettamente al caso di Sheila Jordan. Alla bella età di 87 anni, nel mirabile duo con Cameron Brown Miss Jordan padroneggia in modo stupefacente risorse vocali non ancora intaccate dal tempo. La limitata estensione è compensata e valorizzata da un’ampia gamma di sfumature, uno swing e un timing perfetti, una vivacissima articolazione dello scat, una dizione nitida e degli slittamenti fonetici che aggiungono ulteriori colori. Risalta l’abilità del duo di trasporre in tonalità differenti ballads come «Yesterdays», «Autumn in New York» e «Ballad of the Sad Young Men» o il Fred Astaire di «Let's Face the Music and Dance» e «Cheek to Cheek», dando luogo a delle vere e proprie trasformazioni. Al tempo stesso, frammenti di Parker e Coleman, «Goodbye Pork Pie Hat» e «Dat Dere» divengono occasioni di sfida e non citazioni filologiche. In altri termini, un’autentica lezione su come far vivere – nel vero senso della parola - la tradizione attraverso la capacità narrativa, raccontando storie di vita in una completa identificazione tra la persona e l’artista.


Gerald Clayton, Charles Lloyd, Joe Sanders, Eric Harland © Luca d'Agostino/Phocus Agency by courtesy of Jazz & Wine




Classe 1938, Charles Lloyd prosegue il suo percorso rigoroso. Col nuovo quartetto sfrutta dei canovacci basati su semplici spunti motivici per costruire lunghe esecuzioni senza soluzione di continuità, fornendo sempre ai colleghi indicazioni efficaci sulle direzioni da intraprendere, sia che si parta da pedali modali o frammenti melodici, oppure ci si avventuri su tempi liberi. Il cangiante tessuto ritmico è imbastito con maestria dinamica e ampia varietà di figurazioni da Eric Harland (dr), e con acume e potenza da Joe Sanders (b). La materia armonica viene analizzata e sviscerata da Gerald Clayton (p) con gusto, misura e originalità nella scelta dei voicings. Concentrandosi esclusivamente sul tenore, a parte il flauto in un brano, Lloyd ha confermato come la parsimonia del linguaggio sia patrimonio dei grandi.



Generazioni a confronto. Una definizione che potrebbe ben adattarsi al Trio Generations diretto da Joe Fonda (b) e Michael Jefry Stevens (p). Vi convivono infatti diverse anime: l’approccio di improvvisatori spericolati dei due leader; il bagaglio di esperienze diversificate del batterista austriaco Emil Gross; il sanguigno retaggio afroamericano dell’ospite Oliver Lake (as). L’interazione tra Fonda e Stevens produce una riserva inesauribile di spunti che permettono alla free improvisation di rivivere di vita propria senza cullarsi sugli allori di un passato ormai storicizzato. Stupisce la creatività con cui Fonda e Stevens ricavano strutture da cellule e frammenti ritmici: il bassista esplorando – in una sorta di simbiosi - tutte le possibilità recondite e le superfici dello strumento; il pianista con tocco spesso scarno e percussivo. Lake penetra, talvolta quasi a fatica, in questo magma ribollente di idee con linee spigolose, asimmetriche e suono corrosivo.


Il quintetto Snowy Egret di Myra Melford è una delle formazioni concettualmente più avanzate della scena contemporanea. Le composizioni della pianista brillano per la precisione e la concatenazione delle frasi tematiche, la stratificazione delle parti ritmiche, la fruibilità di alcune linee melodiche e l’intersecarsi dei percorsi improvvisativi, in una sorta di gioco ad incastro. Prevale assolutamente uno spirito collettivo animato da ferrea disciplina, che determina la quasi totale soppressione dei ruoli solistici e delle gerarchie. A tal punto che l’incessante pulsazione ritmica emanata da Stomu Takeishi (elb) e Ted Poor (dr) risulta un interlocutore paritario per gli intrecci prodotti da piano, chitarra (Liberty Ellman) e cornetta (Ron Miles).


Disorder at the Border rappresenta un trio di confine in tutti i sensi, essendo tra l’altro composto da due friulani – Daniele D’Agaro (ts, as, cl, bcl) e Giovanni Maier (b) – e dallo sloveno Zlatko Kaučič (dr, perc). Nell’assoluta empatia del processo improvvisativo il trio trae linfa vitale – e altra ve ne aggiunge – da composizioni di Ornette Coleman quali «New York», «Faithful», «Jump Street», «The Garden of Souls», «Mob Job» e «Him and Her». I tre vi riversano elementi desunti dalla loro lunga militanza nelle avanguardie europee, specialmente per quanto riguarda l’attenzione meticolosa alle dinamiche e alle timbriche: la gamma linguistica ed espressiva delle ance, il minuzioso lavoro con l’archetto, i colori prodotti con il supporto di varia oggettistica. Dai momenti di libertà controllata si passa così, e senza traumi, a sprazzi di swingante 4/4 e a serrati up tempo. In tale contesto Ornette non è né un’icona, né un santino, ma diventa fonte di nuove idee.


Dopo tanta musica di ricerca non sono mancati alcuni eventi di richiamo, tra i quali vanno annoverate anche un paio di delusioni. Il Devil Quartet rimane una delle migliori espressioni della poetica di Paolo Fresu, la cui proverbiale vena melodica (si prenda ad esempio un’intimistica versione di «Blame It on My Youth») è qui controbilanciata da una maggiore incisività ritmica e un tasso più elevato di urgenza espressiva. A parte alcune concessioni al pubblico (la melodia suadente di «E se domani», l’up tempo rock di «Satisfaction»), le esecuzioni scorrono piacevolmente fluide, sospinte dal tiro della coppia ritmica Stefano Bagnoli (dr)-Luca Bulgarelli (b), quest’ultimo sostituto di Paolino Dalla Porta, e dalla versatilità di Bebo Ferra (g), duplice ago della bilancia: come interlocutore di Fresu e come veicolo, col proprio strumento, del dualismo tra angelico e diabolico alla base della filosofia del gruppo.

Stanley Clarke © Luca d'Agostino/Phocus Agency by courtesy of Jazz & Wine


Al di là di certi aspetti spettacolari tendenti al facile consenso, Stanley Clarke persegue con coerenza la sua linea stilistica. Come sempre dotato di un fraseggio sciolto e potente al contrabbasso e di un suono inconfondibile al basso elettrico, Clarke offre una sapiente e contagiosa miscela di jazz, latin, jazz rock e funk. Come spesso accade, evidenzia il limite di accentrare troppo la musica su di sé e sul proprio virtuosismo. Gli va però riconosciuto il merito di avere dato spazio a tre giovani talentuosi: il 19enne pianista georgiano Beka Gochiashvili, dotato di inventiva e tecnica prodigiosa; il 20enne batterista Mike Mitchell, pirotecnico e troppo esuberante, ma senza dubbio provvisto di un potenziale notevole; Cameron Graves (kb), di pochi anni più grande, funzionale al contesto.


Purtroppo, invece, Jeff Ballard conferma di non possedere una personalità da leader. Il suo trio, con Lionel Loueke (g) e Chris Cheek (ts), assembla suggestioni e materiali eterogenei, in modo a tratti anche piacevole, ma sicuramente dispersivo. Si salta dunque dal latin al funk, dal be bop («Ah-Leu-Cha») al rock blues («Blinded by Love» di Allen Toussaint, nella versione di Johnny Winter). Tale mancanza di coerenza progettuale si riflette anche sulla scrittura di Ballard – a dire il vero, piuttosto piatta - e limita notevolmente l’apporto dei pur validi colleghi.


Il Kenny Garrett attuale costituisce un classico esempio di come il successo possa dare alla testa. Purtroppo oggi non resta neanche l’ombra del potente contraltista che si era rivelato con i Jazz Messengers e consacrato con Miles Davis. Col suo attuale quintetto – Vernell Brown (p), Corcoran Holt (b), McClenty Hunter (dr) e Rudy Bird (perc) – Garrett ha dato vita (se così si può dire) a una musica logorroica, sguaiata, priva di intuizioni, con la quale scivolava spesso in trame banali e ammiccanti, cercando inevitabilmente di coinvolgere il pubblico, una parte del quale è purtroppo caduta nel tranello. Grande successo sì, ma ancora per quanto?


Infine, vale la pena di menzionare lo spazio che è stato giustamente riservato al rapporto con le tradizioni popolari grazie alla presenza di due formazioni completamente diverse. Diretta dallo specialista di organetto diatonico Riccardo Tesi e completata da Maurizio Geri (g, voc), Claudio Carboni (ss, as, bs) e Gigi Biolcati (perc), Banditaliana trae origine dallo studio e dalla rivitalizzazione di fonti del folklore toscano. Negli anni il gruppo ha introdotto nella propria cifra espressiva elementi e spunti attinti dai patrimoni di aree geografiche diverse: dai Balcani alla Turchia, dal Mediterraneo occidentale all’Africa subsahariana. Il che rende la proposta musicale molto appetibile e giustifica il vasto consenso ottenuto in tutta Europa e perfino in Australia. Il giovane trio d’archi austriaco Netnakisum – Claudia Schwab (vl, voc), Marie-Theres Härtel (vla, voc), Dee Linde (cello, voc) – è dedito alla rivisitazione giocosa di materiali disparati. Per l’occasione, con Matthias Schriefl (tp, flh, alphorn) le tre simpatiche ragazze hanno dato priorità e risalto al legame con la tradizione popolare austriaca, soffermandosi comunque più di una volta sui modi della musica classica indiana studiata dal collega tedesco.


Dopo quattro giorni così intensi si lascia Cormòns e il Collio con la netta sensazione di avere compiuto un’autentica esperienza culturale. Un plauso sincero va indirizzato all’associazione Controtempo, organizzatrice degli eventi, e al lavoro efficace svolto su base volontaria dai suoi membri. Al giorno d’oggi non è poco.


Enzo Boddi
Photos:
Luca d'Agostino/Phocus Agency © 2015 by courtesy of Jazz & Wine

© Jazz Hot n° 673, autunno 2015