La XVI edizione di Jazz & Wine ha confermato che il connubio tra musica di qualità, territorio e degustazione di prodotti locali costituisce una formula vincente. Oltre ai consueti appuntamenti al Teatro Comunale di Cormòns e alla Kulturni Dom di Nova Gorica, ancora una volta si è rivelata felice l’idea di collocare gli eventi presso cantine e aziende agricole. Inoltre, l’estrema vicinanza alla Slovenia e all’Austria ha attratto un folto pubblico da quei paesi. Quanto alla programmazione, è stata sapientemente suddivisa tra concerti di richiamo, proposte di nicchia e attenzione alle avanguardie.
Mike Stern illustra con onestà intellettuale le fonti di un approccio ormai consolidato: Jim Hall in certe delicate nuances sonore; Wes Montgomery nei risvolti squisitamente jazzistici del fraseggio; il blues di B.B. King nella maniera quasi «vocale» di modellare le frasi; Jimi Hendrix per l’uso calibrato della distorsione. Il linguaggio di Bob Malach (ts) deriva dall’asse Coltrane-Brecker-Berg, mentre nella coppia ritmica Tom Kennedy-Keith Carlock è il bassista a spiccare per la capacità di dare respiro alle esecuzioni, specie allo strumento acustico.
Il quartetto di Joshua Redman è una vera macchina da guerra, che esplora tracce modali grazie ai tonanti poliritmi di Gregory Hutchinson (dm), alle linee ficcanti di Reuben Rogers (b) e alle possenti armonizzazioni di Aaron Goldberg (p), debitore di Hancock. Per Redman Wayne Shorter rappresenta un riferimento obbligato: oltreché per la meditata rilettura di «Infant Eyes», anche per certe progressioni armoniche. Poi attinge all’eredità di Coltrane, soprattutto in certe sfumature del suono, ma guarda anche a Benny Golson, Hank Mobley e Dexter Gordon.
Il quartetto Zvuk – Luciano Caruso (ss), Jacopo Giacomoni (as), Alberto Collodel (bcl), Piero Bittolo Bon (bs) – propone un ingegnoso assemblaggio di frammenti monkiani, realizzato con rigore collettivo e cristallina distribuzione delle voci.
Klaus Gesing (ss, bcl) sovrappone i propri strumenti tramite campionamenti, elaborando spunti popolari e di musica antica, sulla scia di John Surman e Gianluigi Trovesi.
Nel 4-tet Buenos Aires Heiri Känzig (b) ha inserito il bandoneón di Michael Zisman in funzione strettamente complementare all’elegante disegno melodico e all’ampio respiro dei temi, e al flicorno di Matthieu Michel. Lionel Friedli (dm) contribuisce alla dialettica, che a tratti ricorda i lavori di Dino Saluzzi con Enrico Rava e Palle Mikkelborg.
Meno efficace la proposta di Armando Battiston (p, kb, fl), che in duo con Claudio Mazzer (perc) rimugina suggestioni latine e africane attraverso originali e brani di Don Pullen, Charlie Haden, Eric Dolphy e Michel Camilo.
Nel quintetto scandinavo Atomic la dirompente interazione tra Fredrik Ljungkvist (ts, bs, cl) e Magnus Broo (tp), e l’impatto ritmico tellurico prodotto da Håvard Wiik (p), Ingebrigt Håker Flaten (b) e Paal Nilssen-Love (dm) rimettono in discussione la memoria storica del free, l’improvvisazione radicale europea, il retaggio dell’AACM e gli stimoli della nuova scena di Chicago grazie a un lavoro approfondito sui timbri e uno spiccato senso del collettivo.
Nel quartetto gestito da Joe Fonda (b) e Michael Jefry Stevens (p) confluiscono in una sintesi armoniosa impianti modali, fasi atonali, l’essenza del blues, costruzioni seriali e un asciutto lirismo. Fonda è il motore del gruppo con la sua cavata penetrante e la costante ricerca timbrica, che contrastano col drumming frastagliato di Harvey Sorgen. Stevens si segnala per il tocco essenziale e la profondità dell’esplorazione armonica, mentre Herb Robertson (tp) produce sia frasi crepitanti che dinamiche sfumate, grazie anche all’uso delle sordine.
Con il quintetto Snakeoil Tim Berne persegue la sua opera di rinnovamento del rapporto tra scrittura e improvvisazione. La musica è densamente strutturata, ma la partitura non limita i singoli all’interno di gabbie rigide. Piuttosto, li mette in condizioni di interagire e sviluppare potenti collettivi dove l’elemento ritmico gioca un ruolo fondamentale, azzerando le gerarchie. Le fasce iterative su cui si fondano le esecuzioni hanno la funzione di creare un terreno solido per le evoluzioni solistiche e per la dialettica serrata tra il sax alto del leader e i clarinetti di Oscar Noriega. Spesso le linee tematiche sono doppiate dal vibrafono di Ches Smith, che alla batteria costruisce figurazioni razionali e spartane. Matt Mitchell (p) svolge un instancabile lavoro di cucitura delle trame, sia ritmiche che melodiche. Musica lungimirante, di qualità sublime, come i vini del Collio.
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