Udine, Italia
Udin&Jazz, 30 giugno-3 luglio 2015
Giunti alla svolta del 25e anniversario, gli organizzatori di Udin&Jazz hanno fronteggiato le ormai inevitabili difficoltà finanziarie riuscendo ad allestire un programma variegato, distribuito nell’arco di cinque settimane (dal 24 giugno al 31 luglio), comprendente tra gli altri Kurt Rosenwinkel, Ron Carter Foursight, Caetano Veloso & Gilberto Gil, il progetto Sheik Yer Zappa di Stefano Bollani e il piano solo di Chick Corea. «Argento Vivo» era l’azzeccato titolo scelto per questa edizione, quasi a voler sottolineare la vitalità di un’iniziativa che, ancor più che negli anni scorsi, ha avuto il merito di mettere in evidenza la prolifica scena musicale friulana, come i concerti tenutisi presso la Corte Morpurgo hanno ampiamente testimoniato.
Pur non rinunciando a tracce scritte, il trio del flautista Massimo De Mattia pratica un’improvvisazione molto aperta, privilegiando un rapporto molto fisico con gli strumenti. Soffio, voce e pressione sulle chiavi dei flauti (oltre al traverso, il flauto basso e l’ottavino) producono timbriche sfaccettate e sequenze ritmicamente articolate. Sulle corde del contrabbasso Alessandro Turchet applica un tocco scarno, a volte percussivo. Luca Grizzo opera in simbiosi con i colleghi tramite l’unità tra vocalizzi, gesto, corpo usato come cassa di risonanza, tamburi a cornice e oggetti vari. Flauti e basso costituiscono il versante più squisitamente jazzistico, mentre percussioni e voce forniscono il contraltare etnico e contemporaneo, richiamando a tratti le sperimentazioni di David Moss, Phil Minton e Theo Bleckmann.
Mediante la voce recitante di Aida Talliente e testi tratti da opere di T.S. Eliot, Pier Paolo Pasolini, José Saramago, Allen Ginsberg, Alda Merini, Mariangela Gualtieri e Wysława Szymborska il quartetto Barabba’s ha costruito in due suites un impianto drammaturgico in cui narrazione e musica si integrano. Si riesumano atmosfere e sonorità tipiche delle frange più avanzate del jazz rock, soprattutto attraverso l’utilizzo del Fender Rhodes, trattato da Giorgio Pacorig – con l’ausilio di varie distorsioni – alla stregua di uno strumento a sé stante. Aggressiva e mai scontata, la ritmica - Romano Todesco (eb) e Alessandro Mansutti (dm) – edifica la struttura dei vari frammenti che compongono le suites. Il contralto di Clarissa Durizzotto è contraddistinto da un suono lancinante e un fraseggio spigoloso, ma non per questo privo di sfumature. Il linguaggio è venato da un latente ma sanguigno senso del blues, assume tinte alla Zorn (senza però eccessi schizofrenici) e nei passaggi più intensi richiama lo scomparso e sottovalutato Thomas Chapin.
Altra nuova formazione, già documentata da ArteSuono, Malkuth poggia su una concezione avanzata, per certi aspetti mingusiana per i cambi di tempo, metro e atmosfera, che trae senz’altro spunto dalle avanguardie di Chicago facenti capo al circuito AACM. I cinque giovani musicisti esibiscono una sorprendente maturità di linguaggio. Mirko Cisillino (tp) si avventura su percorsi spericolati riecheggianti Woody Shaw, Charles Tolliver, Don Cherry e Bill Dixon. Filippo Vignato (tb) è dotato di un eloquio sciolto, arricchito dai colori ricavati dall’uso delle sordine. Filippo Orefice (ts) possiede un fraseggio ricco di sfumature dinamiche. Mattia Magatelli (b) anima l’impianto ritmico con linee pregnanti e approccio dialettico. Alessandro Mansutti (dr) sostiene il lavoro dei colleghi con figurazioni essenziali e cangianti.
Quanto la rassegna udinese sia radicata nel territorio lo ha confermato Aiar di Tuessin 2.0, con cui Giancarlo Velliscig ha tradotto in musica e canto dieci poesie in lingua friulana, sotto il titolo Dîs musichis par dîs poetis (dieci musiche per dieci poeti). Sviluppo di una prima stesura del 1986, il progetto pone al centro le voci di Velliscig e di Alessandra Kersevan, già membri del Canzoniere di Aiello. Grazie agli arrangiamenti di Claudio Cojaniz (p), le belle melodie di sapore popolare e la musicalità intrinseca del friulano costituiscono un veicolo per tessiture modali, tracce ritmiche cariche di swing imbastite da Romano Todesco (b) e U.T. Gandhi (dr) e le approfondite evoluzioni del soprano di Nevio Zaninotto. Quest’ultimo è anche protagonista, al tenore, di un organ trio con Renato Chicco (Hammond) e Andy Watson (dr). Questa formazione da un lato rievoca i fasti di Jimmy Smith, Jack McDuff e Don Patterson, ma dall’altro il ruolo centrale del tenore (in qualche misura memore di Dexter Gordon) la spinge su altri gloriosi lidi della tradizione. I risultati più efficaci si raggiungono quando Chicco sfrutta la varietà dei registri e là dove emergono spunti di derivazione latin e funk.
Alcuni eventi di maggior richiamo sono stati ospitati nel piazzale del Castello, con esiti alterni sotto il profilo qualitativo. La lunga serata dedicata al blues ha visto protagonista - oltre al trio di Jimi Barbiani (g), troppo supinamente aderente a certi stilemi del rock blues – la band del chitarrista Carl Verheyen, solista scintillante e versatile, sostenuto da un’eccellente ritmica.
Il concerto del Trio Project di Hiromi, con Anthony Jackson e Simon Phillips, ha riscosso una massiccia partecipazione di pubblico e ampi consensi. Bisogna però rilevare che questa formazione è ormai divenuta una palestra di virtuosismi fini a se stessi, veicolo di uno show confezionato nei minimi dettagli. L’impressionante capacità tecnica della pianista e dei suoi compagni non basta a nobilitare una musica senza respiro, spesso effettistica, costruita su meticolosi canovacci ritmici ma infarcita di clichés. Una proposta anche accattivante, che però ammicca troppo spesso al facile consenso. Abbondano i riferimenti alla poetica di Chick Corea, con divisioni metriche di infallibile precisione e ripetizioni che non lasciano spazio a pause e dinamiche. Nello stile pianistico emergono ovviamente anche rimandi all’approccio di Oscar Peterson, specie in alcune ridondanze del fraseggio, e a quello di Red Garland per l’uso dei block chords, gli accordi a due mani. La preponderanza sonora della batteria di Phillips, sulla scia di Billy Cobham e Dave Weckl, oscura il paziente lavoro di cucitura di Jackson, coprendo il suono pastoso e avvolgente della sua chitarra basso a 6 corde. Non resta che sperare che il talento di Hiromi non si disperda in operazioni di questo genere.
Tutt’altra musica, e tutt’altro spessore, nel duo pianistico allestito da Enrico Pieranunzi con un maestro e profondo conoscitore del Novecento come Bruno Canino, con il preciso intento di esplorare il Gershwin degli anni Venti e la sua epoca. Le trascrizioni per due pianoforti curate da Pieranunzi (autore anche di gustose variazioni su «I Got Rhythm») hanno il merito di valorizzare non solo il raffinato compositore di An American in Paris, ma anche il Gershwin eccellente pianista: formatosi giovanissimo attraverso la pratica di song plugger, cioè di dimostratore per le case di edizioni musicali di Tin Pan Alley, influenzato da Debussy ma anche dal ragtime e dal novelty, come conferma «Rialto Ripples» (1919). Se Gershwin – come compositore in bilico tra il popolare e l’accademico - aveva mutuato parecchi elementi dal jazz e dalle altre espressioni di matrice afroamericana, altrettanto avevano fatto, in maniera e con procedimenti diversi, alcuni autori europei. Pieranunzi e Canino lo hanno certificato con una deliziosa esecuzione di Brasileira, terzo movimento di Scaramouche di Darius Milhaud, pezzo dalla netta impronta brasiliana, assorbita da Milhaud durante l’esperienza in Brasile e grazie ai contatti con Villa Lobos.
È dunque lodevole che un festival jazz abbia dedicato spazio anche alle origini di questa musica e alla sua interazione con altre forme coeve. A conti fatti, Udin&Jazz ha festeggiato degnamente le sue nozze d’argento.
Enzo Boddi Fotos: Luca d'Agostino/Phocus Agency © 2015 by courtesy of Udin&Jazz© Jazz Hot n° 673, autunno 2015 |
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