Padova, Italia
Padova Jazz, 13-15 novembre 2014
Città universitaria di antichissima tradizione, ricca di storia che trasuda dai monumenti e dagli edifici dell’incantevole centro storico, Padova ospita un festival jazz che – nonostante varie vicissitudini – ha ormai acquisito una posizione consolidata sulla scena nazionale ed europea. Nel prologo - collocato tra il 10 e il 12 novembre - l’edizione di quest’anno, la diciassettesima, ha preparato il terreno per gli eventi di maggior richiamo, accogliendo vari gruppi, tra cui il sestetto Plankton della sassofonista Helga Plankensteiner, il quartetto del sassofonista Rosario Giuliani, il trio della cantante Christine Tobin e l’Organ Trio del chitarrista Phil Robson.
Il Teatro Verdi, con la sua tipica struttura all’italiana, ha fatto da suggestiva cornice a tre concerti di indubbio spessore. Nel sodalizio con John Scofield il trio Medeski Martin & Wood rinsalda il legame con le radici nere della propria musica, caratterizzate da grooves intrisi di umori blues e r&b. John Medeski ha messo da parte sintetizzatori analogici, clavinet e mellotron per concentrarsi esclusivamente sul piano, dove esibisce un tocco secco e un fraseggio essenziale, e sull’organo Hammond (con Leslie annesso), veicolo per torride improvvisazioni dove si rinnova, almeno in parte, la tradizione dell’organ trio. Tuttavia, il quartetto esplora una vasta gamma di riferimenti stilistici e forme ritmiche: spirituals, mambo, reggae, la bossa di Jobim («Brigas nunca mais»), il rock di «Light My Fire» dei Doors. Tutto ruota intorno a un blues feeling che è assolutamente nelle corde di Scofield: nelle capienti progressioni armoniche, nei riffs contagiosi, nella peculiare maniera di modellare il suono mediante il bending, perfino nell’insolito uso del wah wah. Billy Martin si cala senza protagonismi nella multiforme dimensione ritmica, mentre Chris Wood fornisce – specie al basso elettrico – una pulsazione corposa e vitale, rievocando a tratti James Jamerson, Michael Henderson o Verdine White.
Sulla scia di Into the Woodwork, con il suo attuale quintetto Steve Swallow ha consolidato certi tratti distintivi della propria concezione compositiva: temi articolati intorno a melodie sofisticate, ma di ampio respiro; armonie ora rarefatte e sospese, ora scorrevoli; una lungimirante visione d’insieme che privilegia sempre il collettivo. Swallow fa spesso interagire, quasi in simbiosi, Chris Cheek (ts) e Steve Cardenas (g) attraverso unisoni, impasti, linee contrappuntistiche e scambi di chiamate e risposte. Carla Bley (org) svolge un lavoro oscuro, ma efficace, di raccordo e cucitura. Nella varietà metrica prevista dalle esecuzioni Jorge Rossy (dr) spicca per senso dello swing, drive e sensibilità nel controllo delle dinamiche. Con il suo proverbiale basso a cinque corde – ormai trattato alla stregua di un basso armonico (o, nella terminologia anglosassone, acoustic bass) - Swallow interpreta il ruolo di autentico centro motore, creando linee fluide e propositive corroborate da fini invenzioni melodiche, che si intersecano sempre in funzione dialettica con il contributo dei colleghi.
In chiusura il festival ha dedicato un giusto tributo ad Antonio Carlos Jobim, a vent’anni dalla morte, affidandone l’onere a Jaques Morelenbaum – per un decennio collaboratore del compositore brasiliano – con il Cello Samba Trio, completato da Lula Galvão (g) e Rafael Barata (dr). Le celeberrime melodie di «Samba de uma nota só» e «Corcovado», il raffinato intreccio armonico della meno nota «Radamés e Pelé» rivivono in una dimensione quasi cameristica, fresca e leggiadra, animata dalle linee disegnate col pizzicato e dalle improvvisazioni del violoncello, dalle sottili armonizzazioni e dai fraseggi cesellati da Galvão, dalle sottili e instancabili figurazioni di Barata, attento a ogni sfumatura. L’intro per solo cello di «Retrato em branco e preto» si è colorata di tinte quasi bachiane, magari mutuate da Villa Lobos. Questi equilibri non si sono modificati sostanzialmente dopo l’ingresso di Paula Morelenbaum (voc), che ha ridato una voce credibile ai temi di «Desafinado», «Ela è carioca», «Gabriela», «Água de beber» e «Águas de março».
L’omaggio a Jobim è stato preceduto dalla presentazione del libro di Sérgio Cabral Antonio Carlos Jobim. Una biografia e completato, la mattina del 16, dal concerto del cantante Gino Paoli, coadiuvato da Franco Cerri (g) e Danilo Rea (p), il cui incasso è stato devoluto per la costruzione di una scuola di musica nella favela Rocinha di Rio de Janeiro.
Grazie alla collaborazione con il club Smalls di New York, si è potuto anche apprezzare il quartetto del pianista Spike Wilner, gestore e direttore artistico di quel locale, protagonista dei concerti pomeridiani e serali all’Hotel Plaza. Mainstream di gran classe, orientato verso una fresca e brillante riproposizione di stilemi bop, grazie alla propulsione incisiva di Tyler Mitchell (b) ed Enzo Carpentieri (dr), alle infuocate digressioni e alle intuizioni melodiche di Joe Magnarelli (tp), e all’abile regia di Wilner, bravissimo anche nel guardare indietro alla tradizione dello stride e del ragtime. Una realtà, quella della scena newyorkese, ben rappresentata anche dal libro di Nicola Gaeta BAM, il jazz oggi a New York e dalla mostra Jazz Katz, basata sul libro eponimo del fotografo Jimmy Katz. La presenza di un pubblico numeroso, attento ed entusiasta ha premiato gli sforzi degli organizzatori.
Enzo Boddi Photos © Michele Giotto by courtesy of Padova Jazz© Jazz Hot n° 670, hiver 2014-2015 |
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