Cormòns, Italia
Jazz & Wine, 24-26 ottobre 2014
La diciassettesima edizione della rassegna friulana ha ulteriormente consolidato il legame tra musica, territorio e prodotti locali, ribadendo il suo carattere internazionale grazie alla presenza di musicisti di varia provenienza e alla partecipazione di un pubblico composto da italiani, austriaci e sloveni. Quanto all’ambientazione dei concerti, il lodevole sforzo dell’associazione Controtempo non solo ha contribuito a confermare il rapporto sia con cantine e aziende che con la Kulturni Dom di Nova Gorica, ma ha anche procurato la disponibilità di nuovi prestigiosi spazi quali il castello di Spessa, l’abbazia di Rosazzo e la chiesetta di Sant’Apollonia. La ricca programmazione era come sempre ispirata a criteri di qualità e ha riservato non poche sorprese, a cominciare dall’originale proposta dell’Open Collective del sassofonista ungherese István Grencsó, sintesi potente di jazz modale e umori popolari.
In un contesto affine si colloca il Quinteto Argentina guidato dal sassofonista austriaco Karlheinz Miklin. Il fitto impianto ritmico imbastito da Marcelo Mayor (g), Alejandro Herrera (elb), Quintino Cinalli (dm) e Mario Gusso (perc) incorpora elementi di tango, rumba, samba e calypso in un mosaico privo di tratti oleografici. Piattaforma ideale per le digressioni asciutte ma penetranti di Gustavo Bergalli (tp, fgh) e per la multiforme espressività di Miklin, dotato di un fraseggio appuntito e ficcante al soprano, sanguigno – sulla scia di Jackie McLean – al contralto e variegato al tenore, capace di spaziare da Ben Webster a Joe Henderson.
Il quartetto di Carlo Maver (bandoneón, fl) esplora frequenti riferimenti all’Africa subsahariana, al Maghreb e all’universo afrobrasiliano (attraverso il chôro) limitando al massimo le influenze di Piazzolla e Galliano. Si segnalano il ruolo centrale di Pasquale Mirra (vib), la funzione complementare di Achille Succi (bcl) e il gioco coloristico di Roberto Rossi (dm, perc).
Sul piano della ricerca di nuovi linguaggi, il quintetto di Mary Halvorson rappresenta una delle punte di diamante del jazz contemporaneo. Nella densa scrittura, caratterizzata da parti ad incastro, temi geometrici, linee asimmetriche e apparentemente disarticolate si percepisce tra le righe l’impronta del maestro Braxton.
Sul solido ancoraggio di John Hébert (b) e sulle figurazioni secche ed astratte scandite da Ches Smith (dm) si rincorrono i fraseggi paralleli di Jon Irabagon (as), Jonathan Finlayson (tp) e della chitarrista, che spazia da frammenti essenziali e acuminati a distorsioni di matrice rock. Ne risultano collettivi dove paradossalmente tutti appaiono solisti senza esserlo realmente.
Il duo Garrison Fewell (g)-Boris Savoldelli (voc) oscilla tra una spiritualità rarefatta – che racchiude dediche ad Albert Ayler e Roy Campbell e i versi di «Cosmic Equation» di Sun Ra – e una sperimentazione vocale mimetica, che gioca spesso su cellule ritmiche e sulle risorse fornite dal delay. Ne è un esempio lampante l’arrangiamento di «Dear Prudence» dei Beatles, dove le stratificazioni della voce agiscono in funzione di contrabbasso, due violini, due violoncelli, due corni inglesi e oboe. Peraltro, un’estesa gamma di sfumature ridona nuova linfa sia a «You Don’t Know What Love Is» che a «Perfect Day» di Lou Reed.
Il festival ha dedicato poi ampio spazio ai trii. Tino Tracanna propone temi fortemente strutturati, con spazi liberi e vasto respiro. La sua concezione deve qualcosa tanto a Ornette Coleman, quanto ai trii di Joe Henderson e Paul Motian, specie nei brani aperti impostati su tempo libero. Certe venature sanguigne del tenore ricordano anche il primo Archie Shepp, mentre il fraseggio sfaccettato e appuntito del soprano richiama David Liebman. Assecondano Tracanna nell’intenso dialogo Vittorio Marinoni (dm) e Giulio Corini (b) con una cavata corposa e linee fluide, avvolgenti.
Con Michel Godard e Patrice Héral Christof Lauer forma un trio realmente paritetico. Dotato di una notevole carica espressiva, Lauer (ts, ss) sviluppa lunghi percorsi, vere e proprie cortine di suono, lavorando sulle dinamiche e sui sovracuti, e portando così ben oltre la matrice coltraniana. Godard costruisce poderose architetture con la tuba, spirali sinuose col serpentone e solidi puntelli ritmici col basso elettrico; Héral vi sovrappone poliritmi e colori abbondanti.
L’approccio di James Brandon Lewis (ts) emana forza interiore e spiritualità al tempo stesso. Nel suono e nel fraseggio si colgono l’afflato di Coltrane, il senso del blues di Dewey Redman, l’impeto eversivo di Ayler e Shepp. Tuttavia, Lewis sviluppa tutti questi elementi in una sintesi originale che deriva spesso dall’elaborazione meticolosa (e a tratti ossessiva) di cellule ritmiche e motiviche, in perfetta simbiosi con Max Johnson (b) e Dominic Fragman (dm). Esemplare, in questo senso, si rivela la destrutturazione di «Somewhere over the Rainbow». Il retroterra di gospel e spirituals è palpabile tanto in certe ampie curve melodiche quanto nella dissezione di «Swing Low, Sweet Chariot» e «Sometimes I Feel Like a Motherless Child».
Nell’ultimo dei tre eventi ospitati al Teatro Comunale, Avishai Cohen (b) ha messo in mostra un interplay costante e fecondo con Nitai Hershkovits (p) e Daniel Dor (dm): un’interazione che prevede continui scambi di ruolo, nonostante la tendenza del leader ad accentrare su di sé le esecuzioni. Del resto, i temi sono architettati in modo armonicamente impeccabile, dotati di squisito senso melodico e di uno svolgimento fluido e mai prevedibile. Nell’impianto modale di molti brani si individuano infatti scale tipiche della musica ebraica di ambito mediorientale e di origine giudeo-spagnola. Sul piano squisitamente tecnico, infine, sono impressionanti la scioltezza di Cohen nel fraseggio e la capacità di Hershkovits di ampliare i nuclei armonici.
Quanto agli altri concerti del Comunale, la coreana Youn Sun Nah offre un esempio di vocalità a tutto tondo: ferrea autodisciplina, controllo totale dell’improvvisazione, tecnica di estrazione classica che le permette di coprire un vasto spettro di ottave, capacità formidabile di slittare da registri gravi e grotteschi a passaggi di cristallina purezza. Notevole la sintonia, anche dal punto di vista ritmico, con Ulf Wakenius (g): toccante la loro interpretazione di «Hurt», brano dei Nine Inch Nails reso celebre da un’emozionante versione di Johnny Cash. Nell’ambito di un repertorio eterogeneo - comprendente anche folklore coreano, svedese e inglese - resta da mettere meglio a punto il ruolo di Vincent Peirani (acc) e Simon Tailleu (b).
Con Greg Leisz (g, pedal steel), Tony Scherr (b) e Kenny Wollesen (dm), Bill Frisell persegue la proverbiale esplorazione in seno alla tradizione popolare americana. L’essenza jazzistica è ridotta all’osso e si manifesta piuttosto nel modo di modellare il suono e trattare le dinamiche. Negli incroci tra le chitarre si colgono nette influenze country ed elementi del primo rock’n’roll, specie per i suoi legami con il rhythm’n’blues. Per quanto piacevole, questa dialettica finisce per frenare (e a tratti appiattire) la ritmica. Gli esiti migliori si apprezzano sui tempi dilatati e nei frangenti in cui è il blues ad emergere.
La forte risposta del pubblico, sia a questi che agli altri eventi, certifica la qualità dell’offerta: ricca, varia, ma mai supina alle logiche di mercato.
Enzo Boddi
© Jazz Hot n° 670, hiver 2014-2015
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